domenica 13 marzo 2011

Sempre dal blog di Cristina Rocchetto

Riprendo il discorso sul progetto “Intercultura” (scambio internazionale di studenti in età minorile) iniziato nel mio articolo precedente.
Qui, innanzi tutto, la premessa storica che dia ragione del decennale impegno (senza scopo di lucro) di questa organizzazione di dimensioni mondiali. Il progetto “Intercultura” deriva da una associazione nata tra Francia ed USA ai tempi della Prima Guerra Mondiale e chiamata AAFS. Si trattava inizialmente di un servizio volontario di soccorso ai feriti di guerra, una rete di ambulanze che appoggiava un ospedale americano presente nel territorio: l’acronimo deriva infatti dalla dizione “American Ambulance Field Service”. Finita la guerra, si era già cominciato a trasformare questa collaborazione in uno scambio tra giovani studenti americani e francesi che volevano fare esperienza di soggiorno estero - gli uni in Francia, gli altri in America - agevolati da borse di studio ed ospitati da famiglie locali; il progetto perse la “A” riferita ad “Ambulance” (ambulanza) e divenne temporaneamente AFS (1916-‘39), per poi riconvertirsi in un servizio di ambulanzieri durante la Seconda Grande Guerra. Terminata questa, si rivolle utilizzare l’esistenza di AFS come strumento per favorire e diffondere nelle nuove generazioni un’educazione alla pace attraverso l’offerta di una esperienza personale e diretta dei ragazzi in contesti culturali diversi dal loro; rapidamente, il progetto si allargò e cominciò ad includere vari Paesi stranieri prima effettivamente orbitanti attorno agli USA e ad una cultura di matrice occidentale, poi, dagli anni ’80, anche Paesi di cultura diversa, come la Repubblica Popolare Cinese e gli allora Paesi Socialisti: oggi sono coinvolti in questa rete di scambi circa 70 Paesi di tutti i continenti. In Italia, nel 1955 dalla rete AFS prese avvio il progetto “INTERCULTURA”. C’è qui da precisare che la stessa parola “intercultura”, nome dato all’associazione italiana e che all’inizio si riferiva appunto alla modalità degli scambi internazionali tra studenti stranieri, oggi è diventata parte della normale terminologia accademica per definire qualcosa che si distingue dal concetto di “multicultura”. Per “multicultura” infatti si attesta semplicemente la compresenza, in uno stesso ambiente, di tratti culturali provenienti da diverse realtà (non solo geografiche, come ho sempre sottolineato anche io nei miei articoli scritti anni fa dalla Germania, poiché anche il soggetto portatore di esperienze familiari o personali diverse rappresenta un diverso modo di percepire, dunque porsi, vivere, valutare ed agire nel mondo; io da lì parlavo del “bambino multiculturale”). Ma “attestare” la presenza del diverso, però, non significa ancora saper comunicare con lui, saperlo accogliere/includere/inserire/integrare: il farlo presuppone la capacità di saper innanzi tutto ammettere l’esistenza di punti di vista e prospettive diversi dal nostro che portano gli altri a vedere e giudicare la realtà appunto e conseguentemente in maniera diversa; secondariamente, il farlo significa saper ridefinire e rinegoziare i termini del proprio linguaggio culturale nel senso più ampio della parola in modo da stabilire un rapporto di comunicazione paritaria con “l’altro” che non significa semplicemente conoscerne la lingua… E ricordiamoci sempre che per “altro” non intendiamo solo lo straniero in termini geografici, ma anche il portatore di esperienze a noi estranee in generale: per esempio, il soggetto portatore di disabilità o di esperienze familiari diverse (prendiamo il bambino figlio di una prostituta…) è “altro” per molti che pur gli vivono accanto… ed anzi, essere “altro” nell’ambiente che ci circonda è una delle circostanze più dolorose in cui all’uomo è dato di nascere, poiché significa senza mezzi termini non sperimentare mai il rassicurante calore dell’appartenenza. Questa capacità di dialogo interpersonale fondato sulla consapevolezza e sul rispetto dell’esistenza di realtà diverse è appunto quanto si intende riferendoci al concetto di “intercultura”. Ora, sorpassata l’età minorile e raggiunta la maggiore età, i giovani possono più facilmente vivere un’esperienza di soggiorno all’estero: le ragazze, per esempio, possono scegliere di andare a vivere in una famiglia del Paese e della città prescelta come “ragazze alla pari” (au-pair), offrendo una collaborazione di qualche ora (solitamente 15 ore settimanali o poco più) nei lavori domestici e come babysitter (solitamente due sere a settimana) in cambio di vitto, alloggio ed un piccolo contributo per coprire le piccole spese; i ragazzi hanno solitamente più difficoltà a trovare un lavoro in famiglia, ma possono comunque rivolgersi ad agriturismi, alberghi, ristoranti eccetera per poter avere un lavoretto part-time e tempo libero necessario per frequentare un corso di lingua locale e per conoscere il luogo. La possibilità di andare soli all’estero non è limitata ai maggiorenni ed è aperta ai ragazzi ancora minorenni grazie all’azione ed all’impegno di associazioni internazionali che organizzano e gestiscono varie modalità di soggiorno. Qui però si tratta di mandare all’estero per un periodo di diversa durata ragazzi ancora in un’età delicata e vulnerabile, durante la quale, se è fondamentale per loro incontrarsi/scontrarsi con il “nuovo”, è altrettanto necessario che questa possibilità sia loro offerta senza che essi si trovino veramente soli davanti ai pericoli dati dal disorientamento ed altro, e dalla mancanza di riferimenti familiari; ragazzi che non possono perdere giorni di frequenza scolastica e che non hanno ancora l’età per poter lavorare. Le organizzazioni che si occupano di questi soggiorni devono quindi garantire la totale sicurezza del minore, senza che “sicurezza” e “garanzia” siano sinonimi di mancanza di stimoli e di sfide autentiche per la sua autocoscienza in via di sviluppo. Ai genitori che leggono preciso nuovamente che “Intercultura” non è l’unica organizzazione che offre a ragazzi ancora minorenni la possibilità di trascorrere un periodo di ospitalità all’estero: ma, trattandosi per l’appunto di minori, come dicevo nell’articolo precedente, il progetto “Intercultura” ha senz’altro il privilegio di avere alle spalle oltre 50 anni di esperienza e di essere collegato al mondo della ricerca accademica: a questo proposito, dal 2007, di ricerca e rapporti con l’università ormai si occupa specificamente la “Fondazione Intercultura”. “Intercultura” lavora rivolgendosi a tre fondamentali gruppi di utenza: 1) direttamente ai ragazzi, studenti di 16-18 anni, che vogliono partire all’estero per soggiorni che vanno dalle poche settimane estive ad un anno intero, ospitati da famiglie scelte e selezionate, ed inseriti in scuole statali con ragazzi della loro età; 2) alle famiglie che, indipendentemente se vogliono o meno approfittare di questa opportunità per i propri figli – sempre che ne abbiano –, vogliano comunque vivere la straordinaria esperienza di accoglienza di uno/a studente/ssa straniero/a diventando una delle tante “famiglie ospitanti” disseminate nel mondo; 3) alle scuole che vogliono fare questa esperienza collettiva mandando per un periodo di poche settimane intere classi di ragazzi, ciascuno ospitato da una famiglia dei ragazzi di una classe estera corrispondente, con l’impegno di ricambiare la medesima ospitalità a propria volta e nel proprio Paese. Quest’ultima modalità, l’unica offerta da “Intercultura” anche ai ragazzi più piccoli (delle medie inferiori), prevede l’accompagnamento e la supervisione di un insegnante curricolare, ospitato anche lui/lei in una famiglia e disponibile a ricambiare il favore a sua volta. Una rete di volontari, il “collante” di tutto il progetto, offre costante sostegno a tutti gli individui coinvolti (studenti ospitati, le loro famiglie d’origine, le famiglie ospitanti, le scuole) prima, durante e dopo l’esperienza del vero e proprio soggiorno. Nel prossimo articolo descriverò meglio le diverse opzioni, che meritano davvero di essere prese in considerazione sia da famiglie private che dalle scuole. Cristina Rocchetto

Dal Blog di Cristina Bocchetto

Intercultura, ovvero un’altra esperienza potente per la scoperta di sé (1) - di Cristina Rocchetto
Circa dagli 11 anni in poi, ragazzini e ragazzine entrano in una fase della loro vita altamente delicata: quella della preadolescenza, che li porta ad esperire i primi mutamenti fisici più vistosi, l’inizio della messa in discussione dei propri orizzonti abituali, la conseguente tendenza ad un comportamento potenzialmente vissuto come esasperante e problematico dai familiari

in cui noia, frustrazione, ansia, voglia di novità eccetera si mescolano tra loro generando una miscela di spesso difficile gestione da parte dei genitori - i quali, diciamo la verità, non sempre fino ad allora sono stati “disinteressati, disattenti ed indifferenti” come vengono fin troppo spesso dipinti nelle sbrigative risposte di chi conosce solo la facile retorica. Io ho già trattato questi temi dal punto di vista di alcuni neuroscienziati la primavera scorsa e non mi ripeterò: in questi miei nuovi articoli, più che parlare di teoria e di considerazioni scientifiche, mi auguro di fornire ai genitori in cerca di proposte alternative alcuni orientamenti stimolanti e concreti per offrire ai ragazzi soluzioni che rispondano al loro bisogno - profondamente naturale e fondamentale per la loro crescita, assolutamente non da svilire o ignorare - di novità, di scoperta, di sfida e di avventura. Così perlomeno io concepisco la mia attività di educatrice anche quando faccio “teoria”: un’attività che ha il privilegio di porsi a metà strada tra il “dire” di chi fa scienza ed il “fare” di chi vive sulla propria pelle i problemi di cui gli altri parlano. Ho quindi dedicato le mie due ultime uscite (vedere archivio) all’interessante progetto del “Campo Avventura”, una delle soluzioni specificamente rivolta ai preadolescenti e disegnata apposta per esporli ad un tipo di esperienza fatta in quanto parte di un gruppo di pari e rivolta alla riscoperta di un modo di vita più essenziale. L’idea sottesa si fonda essenzialmente sulla convinzione che un periodo di allontanamento dalle comodità materiali e (relativamente) dal gruppo di appartenenza abituale possa attivare quelle valenze creative della personalità interiore lasciate inespresse per privilegiare la scelta di altre azioni connesse allo stile di vita più elaborato proprio di una società iperprotettiva come la nostra, dove le relazioni dell’individuo con gli altri e/o con l’ambiente sono altamente previste, ed in cui i ruoli, predefiniti - nel caso dell’ambiente, addirittura dominanti a favore dell’uomo - poco spazio lasciano alla sorpresa (dunque anche alla sfida) come fonte di rischio, ma anche come stimolazione della nostra capacità di sopravvivenza oltre l’immagine che noi abbiamo di noi stessi - e che ci siamo formati appunto sulla base del nostro agire quotidiano. Programmi come l’”Isola dei Famosi” banalizzano ovviamente questi meccanismi fondati su un diverso bisogno di “autenticità”, che in ogni caso alcuni partecipanti testimoniano di aver esperito con intenso coinvolgimento emotivo. L’esperienza di full immersion nella natura può dunque scardinare e decodificare quanto noi diamo per scontato del nostro “saper o non saper fare=essere” grazie alla presenza di “oggetti” che quotidianamente ci circondano ed a cui facciamo inconsciamente riferimento abdicando la nostra capacità di trovare nuove soluzioni, ridisegnando continuamente il nostro modo di essere, ovvero di rispondere alle sfide esterne. E’ chiaro che la vita non può obbligare il cervello di un essere vivente alla continua ricerca di nuove soluzioni senza stressarlo: anche chi vive nei boschi prima o poi si formerà una forma mentis basata sulla (sua) routine. Qui stiamo però affrontando il discorso di “esperienze-limite” utilizzate come strumento di crescita o di presa di coscienza di sé che dir si voglia. Immergersi nella natura è perciò un modo per incontrare la “sfida” e l’”avventura”; ma non è “l’unico modo”: la si può incontrare anche incontrando la novità del non conosciuto, del “diverso da noi”. Ci sono ovviamente vari modi di scoprire l’esistenza del “diverso”, il quale molto spesso ci sfiora senza che noi lo notiamo: ecco il senso di portare i bambini della scuola anche primaria in visita negli ospedali, in qualche casa di riposo; di avere nelle aule compagni portatori di esperienze inusuali, eccetera eccetera… Qui stiamo parlando però di offrire ai ragazzi una possibilità “forte” di immersione prolungata in qualcosa di nuovo. Una delle maniere più stimolanti per incontrarlo autenticamente è organizzare per loro un soggiorno (non un semplice viaggio) all’estero. Offrire ai ragazzi la possibilità di un soggiorno all’estero significa quindi fornire loro di fatto un’altra maniera potente per mettere in dubbio il proprio universo culturale e valoriale attraverso l’incontro con “l’altro”. A causa della complessità di questa esperienza, solitamente anche più lunga della precedente full immersion nel bosco, la si preferisce rivolgere ad una fascia di età di ragazzi più grandi degli altri: si parla di minori dai 15/16 anni ai 17/18. In questo caso, il soggetto infatti non è più accolto in una comunità di soggetti simili a lui, ma vive l’esperienza traumatizzante dell’essere “minoranza”, “solo” (relativamente solo, e dovrò spiegare in quali termini ed entro quali limiti è prevista questa sensazione di “solitudine”) in un mondo diverso da lui e da ciò che prima conosceva quanto a lingua, abitudini e molti valori sottesi: un incontro quindi assolutamente non paritario, affrontato senza il rassicurante ausilio dell’esser “gruppo”, come invece era concepita l’esperienza del Campo Avventura. Lontano da ciò che è normalmente il suo modo concepire la sua “maniera di essere”, “riconoscendola” sino a darla per scontata, si innesca nell’individuo un potente meccanismo di crisi che lo porta a decodificare, dunque riconoscere prendendone coscienza, gli schemi di comportamento ed i valori sottesi abitualmente operanti nella sua normale quotidianità, oltre che, ovviamente, le proprie risorse interiori di sopravvivenza in questo caso prettamente “psicologica” (nei boschi, il gioco passava attraverso la sopravvivenza “materiale”, “fisica”). Ponendo in crisi gli schemi di azione e di giudizio (si parla di “shock culturale/valoriale) che utilizziamo quasi meccanicamente nell’ambiente del nostro quotidiano, queste esperienze attivano un tipo di riflessione e di ricerca di nuovi modi di relazione alla base di una presa di coscienza fondamentale di se stessi e del mondo dei propri valori capace di portare ad una ridefinizione totale dei propri orizzonti mentali. Il progetto “Intercultura” concepisce per l’appunto la “crisi” come privilegiato e potentissimo strumento di crescita, fornendo al giovane la preparazione, il contesto e la guida adeguati per affrontare e superare con grande arricchimento personale questa esperienza fondante per una personalità più aperta al dialogo con il “diverso”. Tra le varie associazioni che offrono la possibilità di organizzare un soggiorno all’estero, ho scelto di parlare qui del progetto “Intercultura” per due ragioni che vorrei sottolineare: sia perché esso si affida ad un’esperienza di lunghissima data, che affonda le sue radici nel periodo tra le due guerre mondiali; sia perché ad esso ormai si collega tutta una serie di specialisti che supervisionano ed elaborano anche speculativamente, attraverso studi e ricerca mirati, ogni aspetto dell’organizzazione, cosa che dà un certo affidamento visto che stiamo parlando di mandare ragazzi minorenni presso famiglie sconosciute e straniere. Io ho incontrato la responsabile di uno dei tanti centri locali ormai disseminati anche in tutt’Italia che, oltre a darmi delucidazioni e raccontarmi aneddoti di esperienze dirette di ragazzi e famiglie ospitanti, mi ha portato dei depliant che illustrano i concetti di base e gli obiettivi di questa associazione - depliant che io ho letto attentamente e che rivelano a monte di questa organizzazione una evidente grande ed aggiornata dimestichezza con principi e valori della più contemporanea educazione interculturale. Non siamo quindi neppure qui di fronte a nulla di improvvisato. Con immenso piacere ed apprezzamento, dunque, vi esporrò i termini di questa opportunità di esperienza nuova e formativa offerta ai nostri ragazzi (ed alle nostre figliole). Per essere esaustiva, ho dovuto dividere anche questo discorso in diverse uscite. Per oggi mi fermo qui e vi rimando al prossimo articolo. Cristina Rocchetto

domenica 20 febbraio 2011


Sicurezza Internet
Sicurezza In internet



Il CASPUR (Consorzio interuniversitario per le Applicazioni di Supercalcolo per Università e Ricerca) in collaborazione con i due Master Universitari in "Sicurezza dei sistemi e delle reti informatiche" e "Gestione della sicurezza informatica" del Dipartimento di Informatica dell'Università "La Sapienza" di Roma hanno definito il progetto "Internet e la sicurezza Informatica per il cittadino". Tale progetto ha come obiettivo primario quello di rendere disponibile, mediante la realizzazione di un sito web, un corso multimediale che affronti le problematica derivanti dall'utilizzo quotidiano di Internet nell'ambito della sicurezza informatica e delle informazioni.

Una sitologia interessantissima piena di Software interessanti con giochi interattivi x educare all'uso di internet

Giochi su internet
Unicef,Ministero della Famiglia,Polizia Postale e Microsoft

Safety Internet


Safety internet day


Via i giornalini porno di antica memoria o i consigli dei fratelli più grandi e delle amiche. La rete ormai è il luogo dove scoprono, esprimono, esibiscono, raccontano e anche sperimentano la propria sessualità, con pochi pudori e molta libertà, i pre-adolescenti e gli adolescenti italiani.

Perché - come emerge dalla ricerca di Save the Children “Sessualità e Internet: i comportamenti dei teenager italiani” realizzata anche quest’anno da Ipsos - il 34% degli intervistati, dunque 1 ragazzo su 3, dichiara di aver ricevuto messaggi con riferimenti al sesso mentre è tra i 14 e i 15 anni che la maggior parte dei nostri adolescenti maschi e femmine - il 54% del campione - diventano “attivi” inviando il loro primo messaggio hard, invio che non imbarazza ma anzi vede in azione anche il 36% degli intervistati fra i 10 e i 14 anni.

Secondo la ricerca poi il 32% di teen ager dà il suo numero di cellulare a qualcuno conosciuto online, il 27% si dà appuntamento di persona con qualcuno contattato in internet, il 19% riceve video-immagini di persone conosciute solo in rete seminude/nude, il 17% ha rapporti intimi con persone contattate via web, il 13% invia video/immagini di sé seminudo/nudo.
Percentuali che cambiano e salgono con il salire dell’età: per esempio fra i 12 e i 13enni è il 10,5% a darsi appuntamento con una persona incontrata in rete a fronte del 31% fra i 16 e i 17 anni; ha rapporti intimi off line a seguito di una conoscenza online il 6,5% dei nostri pre-adolescenti a fronte del 19% dei 16-17enni. E una quota non banale di ragazzini/e di dodici-tredici anni, il 6,5% del campione, invia video e immagini di sé nudi a fronte del 16% dei 16enni-17enni.

“Questi dati dicono in modo eloquente come i ragazzi e le ragazze utilizzino la rete per esprimere e sperimentare a 360° la loro sessualità. Non solo si espongono alla visione di immagini, foto, messaggi a sfondo sessuale ma espongono loro stessi, in prima persona, fino ad arrivare al contatto off line cioè all’incontro intimo vero e proprio con persone conosciute via web”, commenta Valerio Neri Direttore Generale Save the Children Italia.

Connected Intelligence

Connected Intelligence: The Arrival of the Web Society. By Derrick de Kerckhove. Somerville House Publishing.de

by Derrick de Kerckhove

The advent of the Internet is a technological breakthrough comparable to the invention of the printing press. Its effect on individuals and society appears to have profound consequences that we are only now beginning to understand.

From the bestselling author of The Skin Culture comes a groundbreaking book that provides an essential understanding of the meaning of rapidly growing networks on the World Wide Web and how they affect our lives — from business and commerce to politics, education and the media.

Derrick de Kerckhove speculates on the consequences of massive global networking — and what might happen if it reaches a critical mass of independent connected intelligence.” Will the sum total of people’s connected intelligence be vastly more intelligent than any one person’s intelligence could hope to be? This startling proposition points directly to the possibility that we are currently undergoing one of the greatest leaps in the evolution of our species. Connected intelligence may well be the next step in the evolution of human intelligence.

Updating the communication critique traditions of Harold Innis and Marshal McLuhan, Derrick de Kerckhove focuses his erudition and imagination on issues raised by this growing ecology of computer interaction.

Connected Intelligence is as prescient a road map to the future as we can hope to have for the present.

Derrick de Kerckhove is a Professor in the Department of French and Director of the McLuhan Program in Culture and Technology at the University of Toronto.

Wade Rowland, who edited this book, is an author who writes and lectures extensively on new media.

venerdì 4 febbraio 2011

About taxonomy of Learning Theories

My experience of teacher
in a vocational school made me think a lot of use on the approach proposed by the theory of network connectivity and I feel close to the critical Antonio Calvani.

The basis of our society is made up of people who have very little technical expertise, technical, cultural and motivational why I think that only after great efforts by teachers and appropriate support will be able to acquire the minimum skilss and awareness that, perhaps, allow them to use the net benefit of an intelligence and connective knowledge.

"A wild transfer of connectivism to school would lead to think that putting
students on the net is enough to produce knowledge, thus consolidating that
widespread harmful cliché according to which the more technologies we use,
anyway we do it, the better it is for learning.
The undervaluation of the complexity of technical and cognitive operations
is however a form of egocentricity peculiar to expert methodologists. They
forget that they have become familiar with these operations after a long, tiring
training pathway in which there is usually also a deep contribution of traditional
Je-LKS
252
— Communications - Vol. 4, n. 1, febbraio 2008
culture: they project their own expert world thinking that students can become
part of it in a natural or intuitive way.
Trying to get down to facts with more precise references:
when it is assumed that children learn spontaneously to act in the net,
we should remember that this concerns only the lowest levels of technical
functionalities. Continuous observations coming from teachers and also
from recent researches, such as those on cognitive load, highlight how the
capacity to move consciously on the net, to filter and manage information,
to make an inquiry calls for metacognitive abilities, a conceptual horizon
that young people usually do not possess, even more so if they have grown
up exclusively in the digital culture; their activities in the net remain in the
end mainly unorganized, extemporary and superficial. The construction of
a mind capable of using consciously the net is not a datum that emerges
from a simple frequentation with technology; it is a task that school must
intentionally and gradually attain through modalities and forms to be sought
partly also outside the technological dimension;
when emphasis is laid on multi-perspectivity as a fundamental element
of a new idea of knowledge, we should remember that most people possess
a rather limited level of epistemological development and remain attached
to a substantially transmissive view of knowledge: they prefer to have certainties.
Knowledge as conversation is disturbing and destabilizing for the
majority, it is a route fit for intellectual minorities;
when, using the taxonomy about/to do/to be/where/to transform, it is
asserted that our current structures of knowledge memorization (books,
libraries, museums, etc.) are limited to the first two levels and that competences
of higher level are built through reflection and informal learning, we
should not forget that the (static) basis of the pyramid enables individuals to
develop the highest competences and that the role of school – just because
we are living today in the complexity of a reticular society in continuous
motion - is, in the first place, redefining clearly and giving prominence to
the foundations, basic competences and knowledge in their graduality and
propaedeuticy."

A. Calvani "Connectivism: new paradigm or
fascinating pot-pourri?"

martedì 1 febbraio 2011

I don't like

Excuse me my friends but i don't like write on my blog about me.
So here you'll not find a lot of post.

with love

your maura